Narciso

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  1. Nayl
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    Narciso non è proprio una leggenda, ma un mito fantastico dal sapore d'altri tempi. A causa della vendetta di una ninfa egli si innamora della sua stessa immagine e per questo è destinato a vivere un'amore infelice, in quanto impossibile e lontano. Egli si struggerà a tal punto che si lascerà morire per questo amore..
    le interpretazioni artistiche abbondano, ma io ho voluto riprendere un passo dalle Metamorfosi di Ovidio, perchè in poche righe riesce davvero a esprimere la disperazione di Narciso.
    Buona lettura (se avete voglia ^^)!



    Narciso intanto continuava a prendersi gioco delle ninfe come aveva fatto con lei; ne aveva deluse alcune nate dal mare, altre sui monti. E prima la stessa sorte era toccata ai compagni di sesso maschile. Uno degli sfortunati colpiti dal suo disprezzo aveva levato al cielo le mani, esclamando: «Possa egli amare con altrettanta intensità e non possedere l’amato!» Alle sue preghiere assentì la dea di Ramnunte.
    V’era una fonte che splendeva come argento liquido, non contaminata dal fango, a cui mai avevano attinto i pastori né si erano abbeverate le capre o altre greggi dopo il pascolo montano; mai era stata sfiorata da un uccello né turbata da una fiera o dalla caduta di un ramo da un albero. Intorno vi cresceva l’erba, alimentata dalla vicinanza delle acque, e c’era un bosco fitto e fresco che non lasciava passare nemmeno un raggio di sole. Giunto qui il ragazzo, stanco per aver cacciato con impegno sotto la calura, si butta bocconi per immergersi nella bellezza del luogo e per accostarsi alla fonte: e mentre cerca di soddisfare la sete, gliene cresce un’altra dentro.
    Beve e vede il riflesso della sua bella persona nell’acqua: ne è preso e si innamora di un’illusione che non ha corpo, pensando che sia corpo quello che non è altro che onda. È stupito e attratto da se stesso e resta immobile senza battere ciglio come una statua di marmo Pario. Steso a terra contempla il suo gemello, i suoi occhi, due stelle, la chioma che sarebbe degna di Bacco e perfino di Apollo, le guance imberbi, il collo d’avorio, la nobiltà del volto col suo colore bianco e rosa: insomma ammira tutti quei particolari che rendono lui stesso degno di ammirazione. Senza saperlo si innamora di sé e si applaude; è contemporaneamente soggetto e oggetto del desiderio, accende il fuoco e ne è arso. Quanti baci vani dà alla fonte! Quante volte immerge nell’acqua le braccia per cingere quello che gli appare: ma non riesce ad allacciarlo. Non sa chi sia quello che vede, ma brucia per lui ed è quella falsa immagine che eccita i suoi occhi. Ingenuo, perché ti affanni a cercar di afferrare un’ombra che ti sfugge? Non esiste quello che cerchi! Voltati e perderai chi ami!Quello che vedi non è che un tenue riflesso: non ha alcuna consistenza. E viene con te, resta con te, se ne andrà con te, ammesso che tu riesca ad andartene!
    Ma nulla lo smuove di lì: non bisogno di cibo, non di sonno; abbandonato sull’erba all’ombra, contempla insaziabilmente quell’immagine menzognera e si strugge attraverso i propri occhi. Poi, si solleva così un po’, tende le braccia alle selve che lo circondano, chiedendo loro: «Ci fu mai, o selve, qualcuno che soffrì d’un amore più crudele del mio? Voi certo lo sapete perché siete servite da rifugio a molti, quando ne avevano bisogno. Voi che siete così vetuste, ricordate di aver mai visto, nel corso della vostra lunga vita, qualcuno che così si sia consumato? Sono innamorato e vedo l’oggetto del mio amore ma non riesco ad afferrarlo: fino a tal punto l’amore mi lusinga e mi confonde! E per maggior disappunto, non è l’immenso mare a separarci, né un lungo cammino, né i monti, né le porte sbarrate di una cinta di mura, bensì solo poca acqua. Anche lui desidera il mio abbraccio! Tutte le volte che mi sporgo per dare baci alla limpida corrente, lui si sforza di raggiungermi, con la bocca rivolta verso la mia: si direbbe ch’io possa toccarlo. È un nulla quello che si frappone al nostro amore! Fanciullo, chiunque tu sia, esci fuori e vieni qui! Perché mi deludi, mio unico amore, e dove te ne fuggi quando io ti desidero? Non è certo il mio aspetto, non la mia età a farti fuggire: altrimenti le ninfe non mi avrebbero amato. Il tuo volto amichevole mi induce a ben sperare e quando io tendo le braccia lo fai anche tu spontaneamente; quando sorrido mi ricambi il sorriso; spesso ti ho anche visto piangere quando io piangevo e così ti ho visto rispondermi a cenni. Addirittura, per quanto posso capire dal movimento delle tue labbra, mi rimandi delle parole: ma queste non giungono al mio orecchio. Ma allora è chiaro! Quello che amo sono io stesso! Non mi inganna più la mia immagine! Brucio d’amore per me stesso e sono io ad accendere il fuoco che mi divora. E adesso che devo fare? Devo farmi pregare o devo pregare? Ma poi che cosa posso chiedere? Quello che bramo è in me: l’aver troppo mi ha reso povero. Oh! Potessi separarmi dal mio corpo! Sto formulando un voto inaudito per un amante: vorrei che l’oggetto del mio amore fosse lontano! Ma ormai il dolore mi toglie le forze e non ho più molto tempo da vivere: muoio nel fior della giovinezza! Del resto la morte non mi spaventa, se con essa cesserò di soffrire: solo vorrei che l’essere che amo mi sopravvivesse. Invece noi due all’unisono ci estingueremo in un unico sospiro!»
    Dopo questo sfogo ritorna, nella sua follia, a contemplare come prima quel volto e sconvolge lo specchio d’acqua con le sue lacrime, tanto da confondere l’immagine riflessa. Al vederla sparire grida: «Dove te ne fuggi? Resta, crudele, e non abbandonare chi ti ama! Se non posso toccarti, ch’io possa almeno vederti e accontentare così la mia infelice passione!». E in preda al dolore tira giù il lembo superiore della veste e con le bianche mani si percuote il petto: questo, sotto i colpi, si arrossa leggermente proprio come fanno le mele, bianche da una parte, rosse dall’altra, o come fa l’uva non ancora completamente matura, i cui grappoli cominciano a rivestirsi di un bel rosso porporino. Non appena Narciso scorge questo fenomeno nell’acqua, ritornata limpida, non sa più resistere: ma come la bionda cera si scioglie a una leggera fiamma o come svanisce al sole la brina mattutina, così il giovane, macerato dall’amore, si dissolve, bruciando lentamente del fuoco nascosto. E già non ha più colore, nemmeno quel po’ di roseo misto al pallore, né vitalità, né forza: nulla più di quella bellezza che testé gli piaceva contemplare. Non resta più quel corpo che una volta Eco aveva amato.
    Costei, quando lo vide così, per quanto ancora memore dell’affronto e corrucciata, ne provò dolore, e tutte le volte che il giovinetto diceva lamentosamente «Ohimè!» ripeteva il gemito con la sua voce risonante. E quando egli con le mani si percuoteva le braccia, lei riproduceva, identico, il suono dei colpi. Le ultime parole di Narciso, sempre fisso a guardare verso l’acqua, furono: «Ohimè! Fanciullo invano amato!» e il luogo circostante le ripercosse. Al suo «Addio!» rispose l’addio di Eco. Egli reclinò il capo spossato sull’erba verde e la morte sigillò quegli occhi che ancora contemplavano la bellezza di chi le possedeva. E anche quando fu accolto giù, nella sede infera, non smise di rimirarsi nell’acqua dello Stige. Lo compiansero le sorelle Naiadi e si tagliarono ciocche di capelli per offrirle al fratello; lo compiansero anche le Driadi ed Eco accompagnava il loro lamento. E già apprestavano il rogo e si preparavano ad agitare le fiaccole e a trasportare il corpo, quando si accorsero che quello non c’era più. Trovarono al suo posto uno fiore col cuore color di croco cinto da petali bianchi.
     
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